AZNAR C’è un tempo per il potere
MADRID PRIMO ministro José Maria Aznar, lei è giovane - 51 anni -, dispone di una maggioranza assoluta, il suo partito è dato ancora una volta come sicuro vincente, eppure lei ha scelto, da lungo tempo, di lasciare volontariamente il potere. Perché? «Sono giovane ma penso al mio Paese e al mio partito. Lasciare volontariamente il potere è la cosa migliore da fare in questo momento. Come tutte le cose della vita, il potere deve avere il suo tempo. Prolungare le cose darebbe più inconvenienti che vantaggi. La mia decisione è frutto di una riflessione politica e di un impegno morale verso i miei concittadini».
Esercitare il potere troppo a lungo è antidemocratico? Bisognerebbe porre un limite ai mandati?
«E’ democratico quel che gli elettori decidono. Liberi di prolungare il mandato di un leader. Quel che dico è che è bene autolimitarsi. In un regime parlamentare è difficile introdurre un limite al numero dei mandati, perché il premier viene eletto dal Parlamento, sia pure dietro mandato popolare».
Molti leader europei sono piuttosto anziani. E’ un inconveniente?
«E’ un inconveniente per me, che me ne vado a 51 anni cioè all’età in cui altri accedono al potere o sperano ancora di potervi accedere. Il vantaggio è che mi trovo in perfette condizioni per cominciare una nuova vita».
Per meglio tornare in seguito, come uomo della provvidenza?
«Sinceramente no. Se fosse stata questa la mia intenzione, non avrei abbandonato anche la guida del partito popolare. Non credo negli uomini della provvidenza: quando compaiono significa che un Paese sta andando veramente male. Preferisco le democrazie stabili agli uomini della provvidenza».
Preparare la propria successione è difficile. Lei ci è riuscito?
«Lo spero bene! Dal momento in cui sono entrato alla Moncloa (l’equivalente spagnolo di Palazzo Chigi, ndr) non ho smesso per un istante di pensare al momento in cui me ne sarei andato. Era forte la tentazione di restare. Di accontentare quelli che ti dicono - e sono numerosi! - che sei indispensabile. Io stesso, a volte, mi domando: e se fra due anni me ne pentissi? Ma io ho preso un impegno e intendo mantenerlo!».
Quali sono adesso i suoi progetti?
«Non sono candidato ad alcuna poltrona e non ho intenzione di rispondere, mai più, alle domande noiose delle conferenze stampa! Durante i primi anni della mia attività ho contribuito a creare un partito politico importante, il più importante a mio avviso. Poi per otto anni ho retto la presidenza del Consiglio spagnolo in una maniera che credo sia stata assai utile per il Paese. Qualunque cosa faccia d’ora in poi sono sicuro che non avrò mai più la capacità decisionale e l’intensità di partecipazione al mio compito che ho dimostrato al timone del governo. Dopo l’azione è venuto il tempo della riflessione intellettuale. Mi consacrerò alla Fondazione che ho creato in seno al partito popolare. Le idee alle quali ho lavorato, nel partito e in seguito al governo, richiedono nuovo slancio. Voglio scrivere, e non soltanto le mie memorie, perché, senza voler dare lezioni ad alcuno, desidero mettere su carta idee che possano essere utili alla società moderna e che credo buone per l’Europa».
In otto anni, che cosa ha appreso del potere?
«Se sei al potere lo sei per due ragioni: la prima è che lo ami - e se un leader vi dice il contrario non credeteci - e la seconda è che i cittadini hanno votato per te. E’ un’esperienza tutta personale che non può essere trasferita. Si è soli. Guardi questo telefono... io sono l’interlocutore di ultima istanza. E’ in questo che un leader si rivela adeguato oppure no. Tutto il resto è retorica».
Un dirigente può prendere sa solo le decisioni che ritiene buone per il Paese, anche se ha contro l’opinione pubblica?
«Per dirigere bene un Paese ci sono due condizioni indispensabili: la capacità di decidere e la convinzione. Non ci si può lasciare influenzare da tutti i venti o sballottare come un sughero sulle onde del mare. Chi si preoccupa dei venti e delle onde non è un leader ma una banderuola... Per quanto mi riguarda, in occasione di ogni decisione, di ogni riforma promossa dal mio governo, non mi sono mai lasciato influenzare da come tirava il vento in quel momento. Sono stato sempre in prima linea e non sono mai stato capace di fare altrimenti».
La solitudine del potere le è pesata?
«Non mi ha mai fatto né paura né piacere. Il potere si esercita da soli. E’ così che lo si assume. E questo è tutto».
In occasione del conflitto iracheno lei non si è trovato in sintonia con la sua opinione pubblica. Lei sosteneva che si sarebbero trovate armi di distruzione di massa...
«Ho fatto quello che credevo si dovesse fare, nell’interesse generale e del mio Paese. Le armi di distruzione di massa erano una delle ragioni, ma non necessariamente la più importante, Inoltre questo capitolo è ancora ben lontano dall’essere chiuso. C’erano altre ragioni fondamentali per agire, come il ripristino della legalità internazionale e la necessità di assumersi le proprie responsabilità nella lotta al terrorismo internazionale».
Così ha seguito, con spirito di realismo, il senso della storia indicato dalla superpotenza americana?
«Ho agito sia per realismo che per convinzione. Non mi pento di niente. La mia scelta è stata quella giusta per la Spagna. Io guardo il mondo com’è. Preferisco questo alle grandi costruzioni intellettuali, che possono rivelarsi illusorie. Non sono di quelli che dicono: mi piacerebbe se la Storia fosse andata in un altro modo. Una parte della sinistra spagnola dice: sarebbe stato meglio se Franco fosse durato poco. Ma invece è rimasto a lungo, è durato. Allora a che serve, questo atteggiamento? Gli americani non sono stati responsabili né della prima guerra mondiale né della seconda. Si sono assunti molte responsabilità, dalla ricostruzione dell’Europa alla contrapposizione ai sovietici che ha portato alla caduta del Muro di Berlino. Oggi si trovano ancora in prima linea in una situazione tutta nuova, nata dopo l’11 settembre, nella lotta per difendere il mondo dal terrorismo. Invece di continuare a dire che la Storia avrebbe dovuto andare altrimenti, noi europei dovremmo pensare a che cosa va fatto nella situazione presente».
La concezione dell’Europa come potenza ha ancora senso?
«Condivido la convinzione che l’Europa debba essere forte politicamente ed economicamente e che debba avere influenza nel mondo. Si possono avere idee differenti su come arrivarci. A mio parere ci si arriva con Stati-nazione forti, con un’economia molto competitiva e con un legame transatlantico altrettanto forte, senza il quale la capacità d’influenza dell’Europa nel mondo non aumenterà ma anzi regredirà».
Ha la sensazione di aver introdotto in Europa un nuovo modello sociale ed economico alternativo alla socialdemocrazia?
«Se si confrontano i risultati economici europei e americani degli ultimi vent’anni, si osserva che l’Europa ha chiaramente perso terreno. Se vi è stato un consenso per la socialdemocrazia non si è rivelato utile per l’Europa. Non c’è da vantarsi di un modello che produce milioni di disoccupati. Il modello sociale che perseguo produce crescita, posti di lavoro, flessibilità e uguaglianza di possibilità...».
... e sarebbe il modello americano?
«Si può criticare ogni giorno il modello americano e avere meno crescita, essere meno flessibili e competitivi e creare meno posti di lavoro. Smettiamola di criticare e facciamo meglio. Non dobbiamo copiare il loro modello, basta mettere in pratica quello che è stato deciso nel 2000 a Lisbona. Più l’Europa sarà competitiva, più peserà sulle questioni del mondo. Ma l’agenda di Lisbona per ora è lettera morta e noi europei stiamo mancando una bella occasione».
C’è una crisi della socialdemocrazia in Europa?
«C’è stata una prima crisi della socialdemocrazia dopo la caduta del Muro di Berlino e un’altra dopo l’11 settembre del 2001. La sinistra non è riuscita a superare né l’una né l’altra. Con l’eccezione di una persona, Tony Blair».
Secondo lei Blair è socialista?
«Ha inventato la terza via. E’ l’unico a portare idee nuove nel mondo teorico della sinistra».
Lei ha contribuito a dividere l’Europa in occasione della crisi irachena e a bloccare la nascita della Costituzione europea. Si sente il demolitore dell’Europa?
«Quel che conta sono i fatti, non le etichette. In quale campo la Spagna non è in prima linea in Europa? Il mercato unico, l’euro, Schengen, gli spazi comuni di libertà, sicurezza, giustizia, la difesa comune: in ognuno di questi la Spagna è presente. Il nostro Paese ha fatto un grande balzo economico e politico. Abbiamo creato il più grande numero di posti di lavoro fra i Paesi dell’Unione europea, abbiamo un surplus di bilancio, abbiamo ridotto di 18 punti percentuali il nostro debito rispetto al prodotto interno lordo. Questo ha fatto della Spagna una democrazia prospera, l’ottava economia mondiale».
Si è risentito per la riunione fra Blair, Chirac e Schroeder alla quale lui non è stato invitato?
«Ognuno può riunirsi con chi vuole quando vuole. Ma io faccio una mia diagnosi basata sulla realtà. L’Ue ha preso una serie di decisioni importanti, decidendo di riunificare le due parti Est e Ovest del continente, di riformare le sue istituzioni, di lanciare l’euro, di cercare di diventare l’economia più competitiva del mondo, di organizzare un sistema comune della giustizia, della sicurezza e della difesa. In molte di queste iniziative si trova ora in panne. E in alcune fa addirittura marcia indietro!».
Dopo le elezioni la Spagna farà un gesto di distensioneper sbloccare la Costituzione europea?
«C’è chi dice che Aznar ha difeso gli interessi della Spagna da premier ma smetterà di farlo quando se ne andrà. C’è chi dice che bisogna aspettare che Aznar se ne vada, dopodiché le cose saranno più facili. E’ un errore di prospettiva. Si arriverà a un accordo sulla Costituzione europea, ma non si può chiedere ad alcun Paese di andare contro i propri interessi. Aspetto ancora che qualcuno mi spieghi perché mai dovremmo cambiare il meccanismo di voto deciso a Nizza». Copyright «Le Monde»
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