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29.08.05
Pullover
Molti dei nostri politici, di destra o di sinistra non ha importanza, e dei nostri imprenditori vorrebbero un po' di sano protezionismo nei confronti della Cina. L'occasione ora è quella del tessile e delle quote stabilite dalla UE. Come è noto i Paesi del nord Europa vorrebbero venissero tolte mentre l'Italia ed altri Peasi produttori (Francia) vorrebbero invece mantenerle. La Gazzetta di Montezemolo ha distinto infatti tra l'Europa parassitaria dei grossisti e commercianti e l'Europa dei produttori.
Quindi grossisti, dettaglianti, importatori, spedizionieri, ecc. sarebbero la parte parassitaria del sistema economico...
Oggi invece La Stampa pubblica un interessante articolo sulla Cina (che riporto qui sotto) che aiuta a comprendere (dove servisse) la coglioneria degli italiani.
Pechino agli europei Venite a produrre qui poi sarà troppo tardi
SHANGHAI
Shanghai è una folla di grattacieli. I tassisti sono gentili e premurosi. Passanti che cercano di attaccare discorso sono curiosi di sapere se ci sono più grattacieli qui o a New York, e nella domanda c’è già tutto l’orgoglio di stare per raggiungere l’America. Secondo le proiezioni infatti combinando una rivalutazione dello yuan del 50 per cento, che sarebbe da attendersi nei prossimi anni, e il tasso di crescita del 9,5 per cento, quello medio degli ultimi 25 anni, il sorpasso dell’economia cinese su quella americana potrebbe avvenire tra 15-20 anni. In questa metropoli proiettata sul mare, priva delle complicazioni politiche di Pechino, con le attrazioni di una vita notturna sempre più rilassata, ha scelto di vivere la maggior parte degli italiani che sta in Cina. «Bisogna delocalizzare, essere dove c’è la produzione. Oggi il 70 per cento del tessile mondiale si produce in Cina e allora bisogna essere qui», dice con vigore Enzo Montaruli, ex dirigente Fiat, che oggi guida a Shanghai una fabbrica di macchine tessili del gruppo Itema. Loro erano leader del settore in Cina, poi invece i prezzi alti delle loro macchine hanno creato uno spazio di opportunità per la crescita di concorrenti locali, sempre produttori di macchine tessili. Così hanno deciso di trasferire in Cina la loro produzione, quest’anno mirano a vendere 1500 macchine utensili e presto vogliono diventare di nuovo i primi fornitori nel Paese. «Un tempo tutto il tessile si faceva in Inghilterra, oggi lì non è rimasto più niente. Questo tipo di manifattura, ad alta intensità di lavoro, come fa a restare in Italia con quei costi di produzione?», dice Enzo Montaruli. Grazie a questa mossa verso Oriente il gruppo si è salvato. Senza lo spostamento in Cina forse i concorrenti cinesi sarebbero cresciuti tecnologicamente e finanziariamente e avrebbero sfidato gli italiani non solo nel mercato locale ma anche in quello globale. Con la fabbrica in Cina invece il gruppo taglia l’erba sotto i piedi ai concorrenti in Cina e all’estero, e mette una ipoteca positiva sul suo futuro di leader globale del settore. È una complessa trasformazione dei meccanismi di produzione, quella che sta imponendo la Cina al resto del mondo. In questa trasformazione la vita stessa di tante aziende è a rischio, in gioco non sono solo i posti di lavoro in Italia. Forse con l’abolizione delle quote sui prodotti cinesi nel 2008, una scadenza che è già dietro l’angolo e rischia di rovesciarsi come uno tsunami sul settore tessile italiano, c’è tempo solo per cercare di salvare l’azienda. Il discorso, se visto in un arco più largo di tempo, non riguarda però solo il tessile ma ampi ambiti di tutto il settore manifatturiero. Intere linee di produzione americane si sono spostate in Cina. Si tratta finora di quelle a bassa intensità tecnologica. Ma anche altre più sofisticate sono destinate a seguirle, secondo alcuni uomini d’affari statunitensi. Jack Perkowski in soli dieci anni, partendo da zero, ha messo in piedi una società da 400 milioni di dollari l’anno, con 18 fabbriche sparse per tutta la Cina. Produce parti per l’industria automobilistica. «La strategia è stata prendere industrie cinesi, assicurarci il controllo gestionale e finanziario e quindi importare tecnologia dall’America per migliorare la produzione locale - dice Perkowski. - La nostra società è cinese e vogliamo migliorare costantemente la qualità dei prodotti. Già oggi esportiamo il 30 per cento della nostra produzione». Non si tratta di semplice costo della manodopera, che tutti dicono, visto che la forza lavoro rimane meno efficiente di quella occidentale, anche se sta migliorando. Costa meno il terreno, ci sono meno tasse, costa meno costruire le infrastrutture, c’è un’amministrazione locale molto attenta alle esigenze dell’investitore straniero. È questa mistura che convince tanti stranieri a venire a produrre in Cina per poi esportare, invece che per esempio, in Bangladesh o in alcuni Paesi africani, dove la manodopera costa ancora meno. Inoltre c’è il mercato dei consumi interni cinesi che sta crescendo rapidamente e dà ulteriore prospettiva di sviluppo all’investimento. «Volete continuare a fare sempre magliette? Che problema c’è? - chiede un funzionario dell’amministrazione del Tessile cinese, che sovrintende al settore e preferisce rimanere anonimo - le aziende italiane producono in Cina, aumentano i profitti, con i profitti finanziano ricerca e sviluppo in Italia, migliorano la produzione avanzata, creano nuovi posti di lavoro di qualità, e noi rimaniamo indietro. Quelle aziende che non vengono qui non fanno profitti, non innescano questo circolo virtuoso e perciò presto saranno surclassate dalle nostre aziende». Il ministro del Commercio con l’estero Bo Xilai rincara la dose. Lui, alto, bello, suadente, è una delle nuove facce che la Cina presenta al mondo. In primavera ai francesi che tentavano di fargli una lezione sul presunto dumping cinese nel tessile lui rispose: «Ci vogliono trecento milioni di magliette per comprare un airbus». Bo sottilmente metteva sul piatto l’offerta cinese di comprare una flotta di aerei dalla Francia, cosa che avrebbe più che raddrizzato la bilancia commerciale bilaterale. «Ottocento anni fa Marco Polo arrivò in Cina per fare affari, perché i suoi compatrioti non seguono il suo esempio adesso?» dice guardandomi fisso negli occhi. La logica del ragionamento è lineare ed elementare, ma questo significa anche un terremoto sociale in Italia, con centinaia di migliaia se non milioni di posti di lavoro che devono trasformarsi in poco tempo, tantissima gente che dovrebbe trasferirsi in Cina. Se si vuole salvare l’azienda. Senza pensare all’azienda questo terremoto potrebbe essere rinviato. Ma poi gli effetti potrebbero essere ancora più devastanti nel medio e lungo termine. Per i cinesi, vissuti in questo ultimo secolo attraverso massacri e disastri naturali e artificiali di dimensioni bibliche, questi problemi sfide vanno affrontati di petto, e di petto risolti. Vista dalla Cina queste sono oggi le grandi sfide che stanno per rovesciarsi sull’Italia e a cui, secondo i preveggenti cinesi, l’Italia si starebbe preparando. Ma invece l’Italia sembra ignorarle, come se il 2008 fosse tra un secolo e non tra soli 27 mesi. Da Shanghai tutto questo sembra incomprensibile, incredibile.
Francesco Sisci
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Posted by Peter Kowalsky at 29.08.05 18:04