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23.03.04
Antropologia e finanza
Ero bambino e tutti i giorni, dopo pranzo, avevo il permesso di andare a giocare a calcio. L'orario era rigido e dovevo rispettarlo, altrimenti il giorno dopo non ci sarei andato. Tutti i santi giorni, finita scuola, andavo a giocare a calcio su un campetto vicino a casa.
Erano gli anni della grande Inter, quella di Herrera e Moratti. Quella delle due (uniche) Coppe dei Campioni vinte. Allora la formazione dell'Inter la conoscevano tutti a memoria, meglio di una poesia di Giovanni Pascoli che comunque erano facili da imparare: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso.
Sentire "Sarti, Burgnich, Facchetti..." era come la terzina che dava il via automaticamente al resto della poesia.
Erano gli anni in cui le partite in tv non erano frequenti, mi pare un tempo di una partita di serie A la sera della domenica prima di cena, qualche partita importante di coppa ogni tanto. E dovevo, guardando le partite in televisione, abituarmi a colorare visivamente il campo di calcio dello stesso verde dell'erba dove giocavo, e le maglie dei giocatori con quelle delle figurine dell'album Panini, dieci lire la bustina. Le figurine le incollavo con la Cocoina, non erano adesive. E poi succedeva sempre che le pagine dell'album si incollavano tra di loro e cercavo con il coltello di staccarle, rovinando tutto.
Erano gli anni delle merende con pane burro e zucchero; se andava bene, a volte, con la marmellata e con dei cremini al surrogato di cioccolata.
Non ero tifoso dell'Inter, non sono stato tiposo di nessuna squadra, ma l'Inter in quegli anni era epica. Trasmetteva sensazioni vere. O così mi sembrava.
Poi, terminato il periodo della Grande Inter, un po' alla volta, lentamente il calcio ha cominciato ad annoiarmi. Giocare sì, ma seguirlo in tv sempre meno.
Si salvavano i mondiali, sempre fascinosi, come quelli del Messico, su di notte ad ore impossibili e sempre in bianco e nero. Italia-Germania 5 a 4.
Definitivamente l'interesse è scomparso dopo i mondiali di Spagna.
Dopo, tutto è davvero cambiato.
Troppo parlarne in tv e nei giornali, troppa esaltazione per un gioco che era diventato noioso, pieno di tecnicismi e soldi. Tanti soldi.
Ho provato a rivedere qualche partita, ma dopo un quarto d'ora cambiavo canale.
Oggi, se porti per la prima volta un ragazzino allo stadio, magari all'Olimpico domenica scorsa, come vuoi che ne esca? O non vorrà più metterci piede e finirà per odiare il calcio, oppure imparerà che quando sei in branco puoi fare tutto quello che ti passa per la testa.
E crescendo si convincerà che la regola è questa. Il branco detta legge.
Vogliono fare la legge "salvacalcio" e "spalmadebiti" e su questo la politica non trova ostacoli; Berlusconi a braccetto di Veltroni. E i condoni dello scorso anno e di quest'anno non andavano già bene?
Penso ai bambini che ora stanno giocando nei campetti di calcio, i pochi che ancora lo fanno, e all'insegnamento che stanno ricevendo in questo merdaio. E mi chiedo se quelli che giocano in qualche squadretta lo facciano soprattutto pensando all'ingaggio che potranno spuntare se in futuro dovessero far carriera.
Il calcio (come gran parte dello sport) è diventato solo un passatempo per il branco. E una miniera per chi ci lavora. Antropologia e finanza, il binomio che da solo spiega il nostro tempo.
Posted by Peter Kowalsky at 23.03.04 14:21
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