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10.09.02
DALL´ODIO VERSO GLI «YANKEE USURPATORI»...
DALL´ODIO VERSO GLI «YANKEE USURPATORI» ALL´AMORE PER LA CULTURA AMERICANA: UN RACCONTO DELLO SCRITTORE CILENO ARIEL DORFMAN
QUELLO che più ricordo adesso, a più di trent'anni di distanza, è quel moccioso insopportabile che giocava vicino alla piscina termale di Jahuel. Avrà avuto tre anni e faceva l'impossibile per rovinare la calma e la magia del nostro pigro e caldo tardo pomeriggio cileno. Sembrava incredibile che la madre, una gringa bionda, riuscisse a dormire con quel rumore. Eppure era lì in bikini a pancia in giù sulla sdraio senza mostrare la minima intenzione di contenere le brame del satanico pargolo. Angélica, la mia ragazza, - non eravamo ancora sposati, quindi sarà stato prima del 1966 - teneva gli occhi volutamente chiusi, nel tentativo inutile di ridurre il baccano infernale. Io tentai senza successo di concentrarmi nel crepuscolo, quel sole rosso incandescente che scivolava sulle falde vicine alle Ande. La mia futura moglie era cresciuta a Santa Maria, un paesino a pochi chilometri dalla stazione balneare, e mi ero promesso di entrare in comunione con le rocce, le scarpate e gli arbusti della valle del fiume Aconcagua che avevano protetto l'infanzia e l'adolescenza di Angélica. Certamente ero di buon umore: avevo nuotato per mezz'ora nelle acque spaventosamente fredde della piscina e, anche se può sembrare insolito, avevo interpretato la mia resistenza alla temperatura gelida come un segno della mia trasformazione in un vero cileno. Quando nel 1954 arrivai in Cile proveniente dagli Stati Uniti avevo dodici anni, non parlavo una parola di spagnolo e il mio unico desiderio era di ritornare quanto prima nel paradiso di New York. La brutale frigidità dell'oceano Pacifico, dei fiumi e dei laghi del sud del Cile mi sembravano un affronto personale. Come potevo integrarmi in quel paese e diventare parte del paesaggio se quando mettevo l'alluce nelle sue acque incominciavo a tremare dal freddo? Tuttavia, finii per innamorarmi poco a poco di quella terra e di quella lingua e persino della corrente di Humboldt, ostentando come prova inappellabile della mia cilenità la mania di galleggiare per lunghi periodi nelle acque ghiacciate della mia patria di adozione. Ecco la ragione genuina per la quale il piccolo energumeno statunitense mi dava sui nervi. Se avesse avuto la pelle più scura e avesse urlato in spagnolo forse avrei potuto perdonare tanta impertinenza. In fin dei conti, chi ero io per negargli il diritto di essere esasperante e rompiballe sul suolo natio? Invece il ragazzino mi ricordava scomodamente quell'identità alla quale avevo aspirato, la lealtà verso gli Stati Uniti e John Wayne, i felici anni di innocenza che avevo trascorso a Manhattan, la personalità gringa che mi sforzavo di ripudiare. Feci finta di non capire una parola di quello che diceva, sforzandomi di assomigliare al tipico cileno monolingue il cui territorio era stato invaso dal mostro straniero. Ebbene sì, come tutto il resto, in quei fanatici anni sessanta persino un comprimario come il fastidioso bimbo statunitense poteva essere inquinato dal giudizio politico. Il girino yankee e la mamma negligente tentavano di impossessarsi di quella serena piscina cilena, di quello splendido pezzo di natura cilena, come se ne fossero gli indiscussi padroni. A quell'epoca non mi sembrava assurdo vederli come un appendice delle molte forme in cui gli Stati Uniti avevano dominato il «backyard», l'America Latina. La rapacità con la quale si erano impadroniti delle miniere, le terre, le banche, le navi, i marine a Veracruz, le invasioni di Cuba, del Nicaragua, del Guatemala, i proconsoli a Santiago, a Buenos Aires, a Bogotà, le scuole per torturatori, i colpi di stato in Brasile, in Bolivia e in Honduras, la tesi secondo la quale l'unica cosa che noi latinoamericani potevamo capire era un bel calcio in culo. E soprattutto, per la mia generazione, l'orrore del Vietnam. Il fatto che né la madre addormentata né il bambino vociante avessero la minima consapevolezza di incarnare questa storia imperiale me li faceva apparire ancora più colpevoli. Ciò che più mi irritava negli statunitensi -io che ero stato uno di loro e ne avevo condiviso l'insensibilità e la mancanza di coscienza- era l'innocenza cieca, l'incapacità di capire perché i loro corpi usurpatori, le loro voci stridule, la loro ingenua assenza di comprensione dessero fastidio al resto del mondo. Quella apparente ignoranza delle ingiustizie che in loro nome venivano commesse in ogni angolo del pianeta mi sembrava più scandalosa degli stessi interventi. Servirà tutto questo a spiegare quel che avvenne dopo? All'improvviso il bambino cadde nella piscina. Dio mi perdoni - o se Dio non esiste, forse la mia nipotina statunitense di due anni e mezzo mi saprà perdonare quando avrà modo di leggere queste righe- ma devo confessare che ebbi un attimo di esitazione. Adesso lo ricordo bene: per un paio di secondi galleggiai in una sorta di passività assassina. Il bambino non faceva nessuno sforzo per salvarsi, non muoveva le braccia disperato. Cominciò ad affondare nell'acqua fredda e cristallina. In silenzio. Lentamente. E io altrettanto lentamente lo guardavo affondare. Dopo tanti anni ricordo di aver provato una sorta di indifferenza perversa di fronte al naufragio. Quello che avveniva non erano affari miei, in qualche modo il moccioso e anche la madre se l'erano cercata. Sarebbe stato facile lasciare correre un altro secondo, e poi un altro e un altro ancora, niente di più facile che lasciare che quell'acqua frigida divorasse il mondo. Non sono molto sicuro di aver provato tutte queste sensazioni quel pomeriggio. Forse sto proiettando sul ricordo una serie di avvenimenti che capitarono anni dopo. La Cia non aveva ancora armato il golpe contro il governo democratico del Cile; Washington non foraggiava ancora i Contras in Nicaragua né addestrava gli squadroni della morte di El Salvador; ancora non era caduta nessuna bomba sui complessi farmaceutici del Sudan né sui bimbi iracheni, non venivano offerte giustificazioni per l'apartheid in Sudafrica né... la lista è infinita. Probabilmente la mia paralisi è nata da un turbinio di umiliazioni e di risentimento, adesso tocca a loro soffrire come soffriamo noi, non devono pretendere che noi ci sacrifichiamo per i loro bambini ogni volta che vanno a finire in acqua. Voglio pensare che questa fierezza sia nata come reazione di fronte all'immensa miseria e all'agonia in cui versavano tanti milioni di esseri sfortunati nel resto del mondo. Il fatto che io non avessi subito in prima persona queste disgrazie rafforzava misteriosamente la mia collera. Dare agli statunitensi la colpa di tutta l'infelicità dell'universo era più comodo e facile che cercare il modo di fare qualcosa per alleviarla veramente. I due secondi finirono. Mi tuffai, presi il bambino e lo depositai - ansimante e di nuovo urlante - sul bordo della piscina. Questa volta le sue grida dovettero aver risvegliato qualcosa di speciale perché la madre si alzò e si precipitò verso di noi. La sua debordante gratitudine mi fece dimenticare di fingere di non sapere l'inglese e ci mettemmo a parlare in maniera animata e - sorpresa - piacevole. Eravamo tutti e due appassionati di jazz e scoprimmo di essere andati - senza conoscerci, naturalmente - a sentire lo stesso concerto tenuto da Louis Armstrong nel Teatro Astor di Santiago patrocinato dal vilipeso Usis, quella bestia nera accusata di orchestrare infinite manovre contro la sovranità culturale latinoamericana. La circostanza non mi aveva certamente impedito di liberare il mio entusiasmo e di mettermi a ballare fra le poltrone della platea, a pochi metri dal grande Satchmo e dalla sua gloriosa tromba. Era così facile, e continua a esserlo, passare da nemico degli yankee usurpatori (al muro gli yankee ladri, urlavamo a quell'epoca) a adoratore della cultura statunitense. E' un percorso a zig-zag, un andare e venire dall'odio all'amore che da decenni ripetono decine di milioni di essere umani. Ma forse, in quell'occasione, io stavo compiendo uno degli esercizi emozionali e intellettuali più importanti della mia esistenza spaccata in due: il tentativo di separare il popolo degli Stati Uniti dalla politica del suo governo per cercare di fatto di riconciliare le due zone antagoniste in cui si dividevano la mia vita e il mio passato. Da quell'incidente sono arrivato a capire alcune altre verità: che è molto facile adoperare l'antiamericanismo per esimersi dal criticare gli errori e i difetti delle nostre società, sebbene la conclusione non dovrebbe impedirci di censurare gli statunitensi quando, come capita troppo spesso, essi sono responsabili di seminare il terrore nel mondo. Gli Stati Uniti hanno un potere quasi incommensurabile di fare il bene o dispensare il male e l'uso che ne fanno deve poter essere giudicato secondo i loro stessi ideali di tolleranza e di libertà. Ma ciò che ricordo oggi, proprio nel momento in cui il mondo cerca di misurare le conseguenze subite da noi tutti a un anno degli attentati terroristici contro New York e Washington, oggi che la violenza minaccia di estendersi all'intero pianeta, ciò che veramente mi terrorizza, è la facilità quasi automatica con cui, in quel caldo pomeriggio australe, mentre guardavo quel bambino scendere nel vortice trasparente di quell'acqua così fredda, sono stato capace di dimenticare il senso di umanità che ci univa.
Posted by Peter Kowalsky at 10.09.02 14:48